Più di una domanda s’aggira per l’Europa: quale è il ruolo della sinistra oggi? Esiste ancora? Può ancora giocare un ruolo contro l’affermazione delle destre? Come pugili scossi dalla campanella dell’ultimo round, tanto le forze di matrice socialdemocratica quanto quelle della cosiddetta sinistra radicale si interrogano sulle loro sconfitte, sull’avanzata delle destre e sulla presa nell’elettorato dei movimenti populisti.
Gli illusi
Leggendo alcune interviste, come quella al leader laburista inglese Jeremy Corbyn, emerge chiaramente che l’obbiettivo del Together, il convegno di Bruxelles dei partiti socialisti europei [1], è quello di approfondire un’interessante lettura critica riguardo alle politiche centriste perseguite negli ultimi trent’anni dalle socialdemocrazie occidentali. Bertinotti invece, in un’intervista non casualmente dedicata alla medesima questione [2], si spinge oltre e, guardando soprattutto a quello che è successo in Italia, lega il disastro economico e sociale di tali politiche alla spasmodica ricerca dei gruppi dirigenti socialisti e socialdemocratici del controllo del governo. Corbyn da un lato chiede più radicalità nei progetti di governo: “se non sapremo offrire soluzioni credibili, radicali e alternative ai problemi che le persone si trovano ad affrontare, se non offriremo una possibilità di cambiare questo sistema rotto e se non sapremo offrire la speranza di un futuro più prospero ed equo, allora spianeremo il terreno per l’estrema destra”. Bertinotti vede nella scomparsa della sinistra classica, “un diverso luogo dello scontro politico: quello tra il basso e l’alto della società. Lo scontro non è più tra destra e sinistra, che sono indistinguibili”. E riconosce che “oggi la sinistra rinasce su un terreno radicale, non del compromesso sociale”.
Due aspetti rendono interessanti, dal nostro punto di vista, tanto il convegno di Bruxelles dei partiti socialisti europei quanto l’intervista a Bertinotti. Il primo è che, finalmente, anche i socialisti occidentali, dopo le secche sconfitte subite nelle elezioni francesi e tedesche (e considerando anche l’esito di quelle americane) cominciano a mettere in discussione il modello varato da Blair e Clinton fondato sulla rincorsa alle politiche della destra economica e militare e tornano a parlare di valori sociali e della necessità di redistribuire i profitti. Anzi tanto per non farsi mancare nulla si parla di rifondazione dei valori di base del socialismo europeo. Anche se porsi oggi queste riflessioni è un po’ come discutere sulla necessità di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. Il secondo riguarda ciò che Bertinotti analizza nella sua intervista, dove centra l’errore principale che le forze politiche socialiste e socialdemocratiche occidentali hanno commesso dopo la caduta del muro di Berlino e cioè di illudersi che con il muro fosse caduto solo il comunismo e che il mondo si sarebbe aperto ad un periodo di pace e prosperità, “invece si dovrà imparare poi che (“quella fine”) riguardava alla stessa misura tutti i partiti del movimento operaio: comunisti, socialisti, socialdemocratici, labouristi. Le sinistre europee non hanno saputo riguadagnare la prospettiva del futuro, re-immaginarsi. Si è pensato che quella gigantesca costruzione politica potesse vivere senza l’ideologia e invece no”.
Ciò che ha portato i socialisti europei a porsi queste domande e ad affrontarle in un convegno probabilmente non è tanto la necessità di rifondarsi per riprendere il solco dei valori e ideali del secolo scorso. C’è soprattutto l’illusione di essere ancora necessari come argine all’avanzata delle destre fasciste e xenofobe. Il ragionamento che traspare dalle interviste è abbastanza chiaro: rimettere in auge la funzione di mediazione politica e sociale che le forze riformiste interne al modello capitalista hanno svolto nel secolo scorso. Ma qua, si direbbe, casca l’asino. Essi rimuovono, ormai da un trentennio, che quel ruolo e quella funzione di mediazione politica e sociale di stampo riformista è stata possibile ed ha avuto un discreto successo grazie al contrappeso economico-militare dell’Urss e dei paesi socialisti, nonché al peso e alla forza dei sindacati e partiti comunisti. In quel contesto la funzione di contrappeso di quest’ultimi ha permesso un credito verso il padronato che, incalzato da una parte dalla presenza di un blocco di paesi comunisti e dall’altra da grandi lotte operaie e popolari, ha avallato riforme sociali e del lavoro.
Quello che emerge dalle interviste a lato del convegno è che senza il ritorno a politiche di redistribuzione dei profitti, senza politiche di sviluppo e a sostegno del lavoro, senza politiche di tutela dell’ambiente e dei diritti sociali, l’Europa, il mondo intero è destinato a cadere sotto il dominio delle destre nazionaliste.
Di nuovo si illudono.
Si illudono che, senza la minaccia di crollo del sistema capitalistico e dei profitti rappresentata da una rottura rivoluzionaria, i padroni, cioè coloro che detengono e controllano la stragrande maggioranza delle risorse e delle finanze del pianeta, possano autolimitarsi più o meno spontaneamente e decidere, per via pacifica, di rinunciare al vantaggio conquistato in questi ultimi decenni. Bertinotti si illude che una forte opposizione sociale possa imporre ai governi nazionali ed europei quelle riforme che mutino le condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari.
Alle masse sfruttate, peraltro, a cui vengono continuamente negate condizioni di vita decorose, l’istruzione, la sanità, non servono sciocche illusioni: esse hanno bisogno sì di organizzarsi per combattere e contrastare queste politiche, ma anche, finalmente, di sbarazzarsi di chi sparge illusioni con lo scopo, de facto, di addormentare le coscienze. Le lotte sociali e per il lavoro rinascono non solo, come sostiene Bertinotti, come critica radicale al sistema capitalista, ma se hanno l’obbiettivo chiaro di abbatterlo, di costruire una società diversa, una società socialista. In poche parole c’è bisogno di comunismo, di un partito che organizzi e prepari il cambio.
Questo è il punto cruciale sul quale convergono le nostre riflessioni sul convegno dei partiti socialisti europei, l’intervista a Bertinotti e la necessità di alzare l’obiettivo dello scontro, anzi del conflitto di classe.
Illudersi come fa Corbyn di andare al governo per modificare il sistema o, come fa Bertinotti (sempre molto eccentrico), di modificarlo attraverso moltitudini più o meno organizzate sono entrambi percorsi votati al fallimento. Nel primo caso è sufficiente guardare l’esempio della Grecia e di Syriza per avere chiaro che, nemmeno vincendo le elezioni, nemmeno avendo un referendum popolare che lo sostiene, un governo è in grado di svincolarsi dal controllo economico e militare degli apparati di guardia del sistema capitalista. Nel caso di Bertinotti è ancora peggio perché, e lo abbiamo visto a Genova nel 2001, ma lo vediamo quasi quotidianamente dove si manifestano lotte di resistenza, l’apparato poliziesco-militare non permette nessuno spazio.
La prima cosa da comprendere è che il sistema democratico occidentale non è più in grado di fare da mediatore politico-sociale al conflitto di classe tra capitale e lavoro. Ma certamente questa consapevolezza non appartiene agli illusi illusionisti che continuano a sostanziare visioni che hanno il compito di schivare abilmente l’intera storia del movimento operaio, Rivoluzione Bolscevica inclusa.
Ma vi è di più.
Gli illusionisti
L’ennesima boutade bertinottiana merita una rinnovata attenzione da parte di chi ritiene necessaria la ricostruzione di una organizzazione di classe: non la solita bollatura liquidatoria con cui viene, anche giustamente, trattata banalmente e respinta al mittente la classica letterina sul che fare post ’89 dell’ex segretario PRC. E certamente di boutade si tratta perché la riflessione, e soprattutto la conclusione, è priva di fondamento dialettico ma proprio perciò – ed è questo ciò che qui più ci interessa – ci imporrebbe, se non vogliamo continuare a condannarci alla marginalità e alla subalternità, di riproporre, ancora nel XXI secolo e in tutta la sua dirompente attualità, lo studio del nucleo centrale della critica all’idealismo della sinistra hegeliana [3] e al socialismo borghese [4] operata da Marx e Engels nel XIX secolo, da una parte, e la questione del potere, ovvero della presa del palazzo d’inverno dell’Ottobre, dall’altra.
È, come siamo stati abituati molte volte da Bertinotti, l’ennesima invenzione tirata fuori dal cappello, un deus ex machina o un io cartesiano (cogito ergo sum), ma, da buon illusionista, inizia centrando un punto imprescindibile per tutti noi, se consideriamo il collasso ideologico che ha travolto la sinistra europea (di cui le posizioni di politica internazionale sono fulgidi esempi, Cuba, Venezuela, Siria per citarne solo alcuni). Come dire che l’ideologia, tanto vituperata dalla fine degli anni ’80 fino alle porte dei giorni nostri, si riscopre come essenziale per ridare ruolo e prospettiva alla sinistra: appunto “si è pensato che quella gigantesca costruzione politica potesse vivere senza l’ideologia e invece no”, sostiene Bertinotti. Forse avrebbe fatto meglio, per onestà intellettuale, ad usare la prima persona singolare invece del generico impersonale.
Lo diciamo perché la tendenza post ideologica non è stata semplicemente subita ma assunta, anzi, teorizzata in chiave anticomunista e in tutta una lunga fase all’interno dello stesso PRC e del variegato arcipelago della sinistra post ’89, sedimentando profondamente nelle coscienze dei compagni l’idea che un partito ideologicamente orientato (fondato cioè su una teoria della trasformazione rivoluzionaria) fosse fuori dalla storia: in ciò mostrando quanto è profonda la tana del bianconiglio, tanto per citare un’altra favola.
Certo, si tratta di una sedimentazione ideologica (nel senso di falsa coscienza di massa) che si va via via sgretolando di fronte all’emergere sempre più barbaro delle contraddizioni odierne. Ma è pur sempre un problema che abbiamo e con il quale dovremo fare i conti, magari non a lungo, e anzi sul quale dovremmo lanciare una vera e propria offensiva ideologica.
Ma anche prendendo per buono il ripensamento di Bertinotti sul ruolo centrale dell’ideologia le conclusioni cui giunge smentiscono tutta la valenza di quell’assunto fondamentale. Come si può infatti prendere atto della mistificazione del post ideologico e poi rispondere in quei termini all’ultima domanda? Perché la domanda è molto chiara: si chiede se la sinistra, che non può realizzare il cambiamento andando al governo (e fin qui siamo d’accordo), deve farlo con una rivoluzione e lui risponde di NO, deve realizzarlo – il cambiamento – con l’opposizione e il conflitto sociale. Punto. E poi? Ma non è la riproposizione, con l’aggravante velleitario di non tener conto delle mutate condizioni del contesto internazionale, di quell’istanza socialdemocratica, per la quale lui stesso dichiara non esserci spazio? Che visione del mondo è? Quale prospettiva indica, che società alternativa propone? Cos’altro è se non ideologia borghese, una funambolica critica al post ideologico che smentisce se stessa, ma comunque concepita sempre, de facto, in chiave anticomunista?
Opposizione e conflitto sociale, immaginati come la somma delle spinte dal basso in grado di correggere il sistema, rappresentano pure astrazioni se non sono coniugate ad una chiara prospettiva di abbattimento del capitalismo e ad un’analisi scientifica che indichi chi e come quel superamento è in grado di operare e perché, né l’individuazione del soggetto della trasformazione può essere lasciata al dominio delle idee e della metafisica: indicarlo nella moltitudine genericamente intesa (sia nella versione bertinottiana, che, per esempio, in quella negriana, per la quale, inoltre, il potere appare diffuso e diluito: “le banche sono il nuovo palazzo d’inverno” [5]) significa ancora una volta rimettere Marx in soffitta e con esso il metodo scientifico di analisi che, disvelando i rapporti di produzione del capitalismo, la divisione della società in classi, il conflitto capitale-lavoro, il meccanismo dello sfruttamento del lavoro su cui il capitalismo fonda la sua stessa essenza, individua il soggetto che è stato e non può non essere anche nel presente la leva dell’emancipazione e della trasformazione dei rapporti di forza nella realtà: il proletariato. Si può cioè veramente pensare ad una società più equa e giusta senza intaccare la madre di tutte le ingiustizie e da cui tutte le altre discendono, ovvero lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel meccanismo di produzione capitalistico, che genera il profitto?
La visione bertinottiana è intrisa di misticismo innanzi tutto perché non affonda sul versante dei rapporti di produzione e dunque sulla questione della coscienza di classe. La questione dell’egemonia è ridotta a generico conflitto sociale che, senza porsi la questione del potere, sarebbe in grado di ottenere uno spostamento sostanziale dell’asse intorno a cui ruotano oggi le scelte sul mondo del lavoro, sulle pensioni, la sanità e sui diritti civili stessi. È su questo che Bertinotti, da valente illusionista, non da solo, ma in compagnia della variegata ma sempre più esigua platea di sinistra, dà ampio sfoggio di un vero e proprio esercizio puramente retorico, inquinando da decenni il dibattito di logiche interclassiste.
La sostanza dell’ideologia
Appare dunque chiaro che la questione ideologica non attiene banalmente ad un apparato valoriale astratto, ma è una delle categorie fondamentali del pensiero di Marx e di Engels nel processo di elaborazione della concezione materialistico-dialettica della storia, che innanzitutto affonda le proprie radici nella critica alla falsa coscienza della borghesia nel suo complesso e nello specifico all’idealismo della sinistra borghese e di tutti i suoi desiderata e aspirazioni ideali di giustizia sociale; rispetto alle cui declinazioni odierne più varie oggi dovremmo saper ri-condurre analoga critica organica, rispetto cioè a tutto quello che, a tutt’oggi, celando o rimuovendo l’analisi dei rapporti di produzione capitalistici, disconosca altresì il ruolo storico del proletariato del XXI secolo come soggetto della trasformazione e la questione della coscienza di classe che gli necessita perché esso espliciti il suo imprescindibile ruolo per l’abbattimento del decadente capitalismo post-ideologico e per una transizione storica nei fatti ormai già da tempo matura.
In assenza di siffatta critica l’ideologia delle classi dominanti sembra essere oggi egemone, contrastata solo da un patetico susseguirsi di conigli dal cappello: dall’esaltazione in maniera acritica delle categorie di popolo e sovranità – nell’approssimativo quanto catartico tentativo di distinguersi da quelle forze politiche con le quali, per decenni, si sono fatti accordi e/o cartelli elettorali (non ce la possiamo cavare con poco, cari compagni!) – alla tendenza che punta a separare il Marx economista dal Marx politico e mentre salva il primo affossa il secondo (il Marx del Manifesto del partito comunista del 1848, ovvero quello del proletari di tutti i paesi unitevi).
Non si vuole qui sottovalutare la centralità della questione della sovranità nazionale, soprattutto oggi, di fronte alla finanziarizzazione dell’economia e alla torsione neoliberista e anticostituzionale dei trattati europei da Maastricht in poi; ma nel primo caso le categorie suddette se non sono saldate in maniera chiara ad una lettura/prospettiva di classe sono ambigue (poiché conducono alla rinuncia aprioristica della necessaria battaglia per la ricostruzione e per una futura egemonia delle forze realmente rivoluzionarie, anzi ne minano il terreno), non costituiscono, cioè, di per sé antidoto sufficiente, men che meno elemento identitario per i comunisti, e nelle condizioni odierne nemmeno tatticamente, alla mistificazione ideologica della sinistra borghese e delle classi dominanti: tanto è vero che lo stesso Bertinotti propone una moltitudine “di popolo che si oppone alle élites”. Sarebbe dunque il caso di abbandonare una fraseologia internettara (sintomo di una società decadente, dove esiste solo il contingente, un eterno presente) basata su simulacri dialettici invece che su un’analisi scientifica e sistematica dei fenomeni, una fraseologia che non rende giustizia alle potenzialità del metodo storico-dialettico, metodo che invece occorre riattivare.
Nel secondo caso, ma le due tendenze talvolta si sovrappongono, si assume l’idea che il proletariato non possa essere oggi il soggetto della trasformazione in quanto mutato, frammentato e disarticolato dai continui processi di ristrutturazione capitalistica, in questo modo ratificando la fotografia di un fenomeno di frammentazione avvenuto in virtù di rapporti di forza tuttora esistenti e operanti a cui nessuno sembra più avere né la determinazione di opporsi, né gli strumenti di analisi per comprenderlo e declinarlo in termini di classe nel quadro di una teoria della trasformazione per il XXI secolo, puntando cioè ad una riattualizzazione degli strumenti d’analisi del socialismo scientifico.
Ad una fotografia, invece, ne segue un’altra; fotogramma dopo fotogramma seguiamo il capitalismo sul suo terreno sacrificando l’autonomia di analisi che i nostri strumenti “classici” permetterebbero, in favore di una continua modernizzazione ideologica che ha prodotto quarant’anni anni di sconfitte e fallimenti, uno dietro l’altro.
Ma lo stesso meccanismo di rimozione si ritrova nell’affermazione che destra e sinistra sono indistinguibili, non tanto perché essa non sia rappresentazione veritiera – perché lo è – quanto perché essa si esaurisce in una cristallizzazione dell’esistente e non intende affondare l’analisi nella sostanza del processo storico che ha determinato quella “scomparsa della sinistra”. Bertinotti sembra voler rimuovere il senso di ciò che lui stesso afferma a fondamento del suo ragionamento, non vuole indagare cioè il nesso fra la crisi della prospettiva comunista e la deriva verso destra dell’intero quadro politico, sinistra compresa, procedendo invece sulla scacchiera della storia con continue mosse del cavallo che generano salti antidialettici che avvolgono ogni cosa. Si cela così il portato della rottura rivoluzionaria operata dall’Ottobre e della presa del palazzo d’inverno, primo atto dell’irruzione del proletariato sulla scena mondiale, chiave di volta per leggere l’egemonia comunista sulla sinistra nel XX secolo: tolto quel tassello tutto sembra comparire dal nulla e ad un certo punto, quasi dal nulla, ecco che irrompe sulla scena, una sinistra che fa politiche di destra.
I decenni di emancipazione da Bertinotti tanto vagheggiati (quelli dell’opposizione, che lui chiama “i trent’anni gloriosi che finiscono negli anni Settanta”) sono stati infatti possibili nel contesto dell’onda lunga della Rivoluzione d’ottobre che, lo si voglia o no, come messa in discussione reale e concreta del capitalismo, sostanziò quell’ingresso dell’intelligenza nella storia rappresentato secondo Gramsci dal socialismo scientifico di Marx, con il quale le idee “perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio […] Gli idoli crollano dal loro altare, le divinità vedono dileguarsi le nubi d’incenso odoroso. L’uomo acquista coscienza della realtà obiettiva, si impadronisce del segreto che fa giocare il succedersi reale degli avvenimenti” [6].
L’attualità del Socialismo
La questione è perciò ancora una volta quella posta da Lenin nel Che fare? e “si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo […] Perciò ogni diminuzione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese”. Tutto ciò che non è ideologia socialista, potremo dire noi oggi, è mistica post ideologica borghese (ideologia dominante) ed in questo senso, per quanto già detto, per noi la questione ideologica è questione comunista e viceversa, o non esiste né l’una né l’altra. Forse lo abbiamo dimenticato, schiacciati dalle contingenze abbiamo, per decenni, continuato a navigare a vista: ma la questione ideologica è ciò che contraddistingue i comunisti da tutte le altre espressioni della sinistra, perché è nell’identità dialettica tra teoria e prassi il tratto distintivo dei comunisti, sta lì il nostro vantaggio. Abbandonarla al pragmatismo del fare o relegarla in discussioni accademiche significa, in entrambi i casi, rinunciare alla nostra identità e continuare a lasciare campo libero agli illusi e illusionisti. La frammentazione che ne è conseguita altro non è che il frutto della dicotomia teoria-prassi: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario” [7].
L’intelligenza per ora sembra aver abbandonato la storia a vantaggio di visioni del mondo dove scompaiono da una parte il proletariato e dall’altra il palazzo d’inverno, lo Stato borghese. Non c’è che dire in quanto a illusioni e illusionismo: e il cerchio è dunque completo per garantire alle classi dominanti, con la complicità di chi assume la loro ideologia, la barbarie in cui il mondo sta scivolando.
La concretezza della Rivoluzione
Cento anni fa la storia dell’umanità ha subito uno strappo: in Russia il proletariato ha preso il potere, ha dimostrato che la storia può cambiare, ha fondato il primo Stato socialista non capitalista né aristocratico. Gli illusi e gli illusionisti si affannano a nascondere questa verità: la Rivoluzione è l’unica risposta che il proletariato può agire per cambiare lo stato delle cose.
Quello che pare a noi evidente è che il sistema democratico occidentale non è più in grado di fare da mediatore politico-sociale al conflitto di classe tra capitale e lavoro: la socialdemocrazia è finita dopo il crollo dell’Urss, non il comunismo.
In Italia tutti i comunisti, indipendentemente da dove militano, dovrebbero sentire la necessità di riproporre con urgenza l’obbiettivo dell’abbattimento (non il superamento) del sistema capitalista. Questo obbiettivo dovrebbe avere come prima condizione quella di unirsi in un Partito che abbia chiara la sua funzione rivoluzionaria. Oggi tutto ciò è impedito principalmente da gruppi dirigenti che fondano la propria legittimazione sulla divisione e sulla frammentazione delle forze e su programmi di breve respiro subalterni alla cultura borghese e liberista. Gruppi dirigenti abituati a predicare bene, a lanciare proclami roboanti, ma nel concreto dell’azione a razzolare malissimo. Il disaffezionamento della classe alle forze politiche della sinistra (sia nelle forme socialdemocratiche che radicali) e alle stesse formazioni comuniste non si può imputare infatti solo alla macchina da guerra del capitalismo; dovremmo uscire da una visione vittimistica assumendo su di noi la responsabilità di aver offerto e, oggi come non mai, di offrire alla visione del proletariato, della classe, il lato deteriore della politica: un continuo affaccendarsi in mera autoriproduzione e continuità di personale politico mascherato da necessità di rappresentanza in istituzioni borghesi ormai svuotate di significato. Questo ha generato e genera geometrie elettorali svuotate di contenuto programmatico e facilmennte attaccabili anche da populismi di chiaro sapore fascista.
Quali sono i compiti dei comunisti in questa fase storica?
Proletari di tutti i paesi unitevi è la parola d’ordine lanciata da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista: questo è ancora l’obbiettivo di tutti i comunisti, lavorare con tenacia all’unità dei lavoratori, degli studenti, dei disoccupati, di tutti gli oppressi per cambiare il sistema economico e sociale che li ha ridotti in schiavitù, e non già per lottare nel quadro di un generico conflitto sociale. E, sulla base di questo obiettivo, unire tutti i comunisti per un programma rivoluzionario di organizzazione delle lotte sociali e del lavoro, abbandonando definitivamente la strada delle banali sommatorie di gruppi e partitini, e lavorare all’unità dei quadri sindacali per organizzare e difendere i lavoratori. Infine lavorare all’unità dei comunisti di tutto il mondo in una nuova Internazionale Comunista perché la lotta di ognuno di noi sia parte di un progetto mondiale alternativo a quello capitalista.
Note
[1] http://www.eunews.it/2017/10/19/corbyn-sinistra-radicali/95211
[2] http://www.eunews.it/2017/10/18/bertinotti-sinistra-radicale-governo/95109
[3] Ideologia come “falsa coscienza” della borghesia, come “Weltanschauung”, cioè visione del mondo, che serve a celare l’origine delle disuguaglianze, dello sfruttamento e dell’alienazione nella società, a nascondere i veri rapporti tra gli uomini, determinati dai rapporti di produzione (Marx-Engels, Ideologia tedesca, 1846: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio”). Dall’importanza dell’ideologia nel mantenimento del dominio di classe deriva la concezione della sovrastruttura ideologica (dallo Stato alla cultura, la religione, l’arte, ecc.) che si eleva dai rapporti di produzione come uno di terreni fondamentali del conflitto di classe, le cui dinamiche odierne – “le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo” – sono però misconosciute dalla classe stessa che le subisce (e a maggior ragione oggi, vista anche la potenza di fuoco delle nuove dinamiche di formazione del consenso e dei nuovi media); non dovrebbe sfuggire perciò la necessità di un rinnovato approfondimento sulla questione per tutte le sue implicazioni al tempo d’oggi: “L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”, Prefazione dell’Edizione del 1859 a Per la Critica dell’Economia Politica.
[4] Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, III Letteratura socialista e comunista, 2 Il socialismo conservatore borghese e 3 Il socialismo e il comunismo critico utopistici.
[5] Toni Negri, Il nuovo palazzo d’Inverno sono le banche centrali, Il Manifesto, 4/11/2017.
È impossibile per ragioni di spazio affrontare qui la questione dello Stato, ma sarebbe necessario riapprofondirne il ruolo come elemento sovrastrutturale del dominio di classe oggi, ai tempi della finanziarizzazione dell’economia, piuttosto che liquidarlo o semplificarlo.
[6] Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918.
[7] Lenin, Che fare? – Dogmatismo e «libertà di critica» – Engels e l’importanza della lotta teorica.