Potremo iniziare la nostra riflessione mettendo a confronto due questioni: l’unità, come elemento centrale della prassi marxista ed i falansteri di Fourier. In effetti, la contrapposizione è stridente, direi quasi ovvia se mi dimenticassi degli ultimi venticinque anni. In una recente intervista, rilasciata da Veltroni al decano Scalfari, l’ideatore del PD e uno degli artefici della transizione del partito comunista italiano dal campo socialista a quello liberista (PCI-PDS), all’alba della scissione del PD, dice di essere stato quasi ossessionato fin da ragazzo dall’idea di unità mutuata direttamente dalla guerra di liberazione nazionale. E non è nuovo, a chi ha militato nelle varie organizzazioni della sinistra, comunista e non (senza considerare il paradossale partito democratico – ove il paradosso sta nella sua autocollocazione a sinistra), non è nuovo, dicevo, che nei differenti momenti della vita politica (comitati centrali, appelli, elezioni e congressi) non si sia ripetuta come un mantra la questione dell’unità. Volendo soprassedere per adesso a una riflessione sui diversi processi, provo a seguire la logica di un mio ex dirigente politico, passato oggi in universi politici distanti da me e di cui taccio il nome (ma solo per non distrarre dal ragionamento): cari compagni, il giudizio sulle linee politiche lo si dà sulle evidenze, sui risultati. Ebbene, sarà scontato forse, ma da fisico, posso solo notare una certa correlazione strettissima fra gruppi dirigenti della sinistra degli ultimi 25 anni e risultati. In altri termini quei congressi, quelle elezioni, quei documenti, dove la parola unità capeggiava, hanno sempre visto determinati personaggi in ruoli dirigenziali e il risultato, dopo un quarto di secolo, è una frammentazione di portata storica. Ecco perché ho introdotto i falansteri ovvero, chiedendo scusa per l’approssimazione con cui ne parlo, l’idea di una società complessa organizzata secondo unità di base con un minimo e massimo di abitanti. Io ritengo che il risultato di quei gruppi dirigenti, quello più immediato per l’osservatore del quadro politico, sia proprio una frammentazione che assomiglia alle unità di base di Fourier. Inutile dire che la sommatoria dei falansteri non fa una società socialista così come la sommatoria delle sinistre non solo non fa “la” sinistra ma, cosa ancora più importante, non “copre” la classe che dovrebbe difendere e rappresentare. Infatti la classe si dirige altrove da qualche lustro. Mi permetto addirittura di suggerire, sempre come riflessione, che l’unica cosa che quei gruppi dirigenti hanno ben rappresentato è l’idea di società liquida, una società individualista, frammentata, quella società teorizzata, ma direi “prescritta” dal neoliberismo di stampo Fukuyama e suggerita ampiamente ai gruppi dirigenti della sinistra da Tony Negri. Se mi permettete una battuta, Mary Shelley non riuscì a fare di meglio in termini estetici, ma forse sarebbe più opportuno ricordare il grande Martin Feldmann (fra l’altro compagno!) quando nell’altro Frankestein, il Junior, provoca l’inserimento di un cervello “abnormal” nel corpo del gigantesco mostro. Senza che nessuno se ne offenda troppo, mi verrebbe da dire che i gruppi dirigenti della sinistra, tutti insieme appassionatamente, hanno giocato il ruolo di Igor mentre la sinistra attuale è esattamente il mostro.
So bene che il tutto apparirà come una provocazione, un’ offesa addirittura. Non me ne scuso, perché in ballo c’è il destino del mondo che vede ormai da un lustro, dopo la sbornia neoliberista che ha frantumato la classe, a livello mondiale direi, la nuova marea montante nera, fascista. Certamente dal cuore dell’impero (non di negriana memoria) alla periferica Europa (divenuta autostrada senza caselli del capitalismo finanziario) assistiamo al fenomeno dei populismi e del fascismo a cui ormai si rivolgono gran parte dei lavoratori. E le sinistre? E i comunisti? Le definirei, fra le altre cose, soggette ancora oggi alle azioni inefficaci degli stessi gruppi dirigenti di cui parlavo prima. È su ciò che, quasi in maniera ovvia, da una parte Renzi si è inserito con la sua idea di rottamazione e, per alcuni mesi, a dispetto dei risultati terribili per la classe, è riuscito ad avere la leadership nel paese; mentre, dall’altra parte, il M5S, dal canto suo, è riuscito nell’impresa di invertire il rapporto di causa ed effetto: il movimento è l’effetto, nelle migliori delle ipotesi, di questi 25 anni e non la causa, il motore primo, del cambiamento. Sinceramente non so se chi come me ancora fa politica a sinistra assomiglia a quel tale che prova a impedire a una nave gigantesca di salpare munito solo di una corda. Tutto sta continuamente scivolando via, a destra. Eppure sono ancora convinto che si possa, oltre che si debba, fare qualcosa. Quel qualcosa però non può prescindere da un’analisi profonda di questi ultimi 25-30 anni che non trascuri ciò che ha portato alla sconfitta del movimento operaio da una parte e al tramonto del socialismo reale dall’altra. Per dirla più precisamente non possiamo ripartire se non affrontiamo, anche spietatamente, lo studio delle cause soggettive oltre che di quelle oggettive, dove l’oggettività la colloco nella realtà o meglio nel contesto in cui hanno agito i “padroni delle ferriere” prima e i processi di finanziarizzazione capitalistica a partire certamente dagli anni ’80 del secolo passato. La soggettività invece la colloco nell’azione e nelle scelte dei gruppi dirigenti della sinistra tutta e delle formazioni comuniste (dall’ultimo PCI a tutto ciò che si è formato post ’91 nel nostro paese). Per questo credo che nessuna delle attuali formazioni della sinistra e dei comunisti riuscirà a cavalcare la storia. Nessuna di esse ha avuto la pazienza di mettere al centro della discussione la questione dei gruppi dirigenti, la formazione dei quadri e conseguentemente non è stata in grado di seguire una prassi minimamente unitaria. Il punto è proprio questo. Quel “conseguentemente”. Ritengo infatti, ed è più di una sensazione quella che non solo io ma molti compagni hanno provato, di trovarsi sempre nel mezzo a diatribe partite decenni fa e che si ripetono con una assoluta fedeltà da molti lustri, pittoresche diatribe spesso avulse dalla ricerca di categorie d’analisi in grado di spiegare l’esistente, e conseguentemente di orientarlo, attraverso un serio lavoro teso alla riattualizzazione degli strumenti d’analisi e dell’impianto teorico-ideologico dei comunisti per una prassi adeguata al XXI secolo.
Non mi addentrerò in un campo a me ignoto (quello della psicologia di massa) ma mi basterà ricordare come, recentemente, sia stato recuperato dalla sociologia il complesso di Telemaco come strumento per indagare l’impatto della perdita del riferimento “paterno” su interi segmenti della società. Non vi è dubbio anche come tale categoria sia stata ampiamente usata per coprire, attraverso un fittizio quanto strumentale rinnovamento di gruppi dirigenti, un’operazione di stampo interclassista di attacco ai diritti dei lavoratori e alla Costituzione.
I comunisti usano altre categorie, ovvio, ma non possono essere sordi di fronte all’esigenza della rigenerazione e del rinnovamento adeguato al quadro politico e sociale emerso dopo gli anni ’80: e credo dunque che uno dei grandi problemi dei comunisti e dell’intera sinistra risieda nel fatto di vivere e calpestare la terra dove nacque e si sviluppò il più grande partito comunista d’occidente. Ciò merita una riflessione più approfondita fuori dall’obbiettivo di questo articolo.
Permettetemi di chiudere con un’autocritica. Io, che di quei gruppi dirigenti non ne ho fatto parte ho le mie colpe. La principale delle quali è stata quella di affidarmi sempre e comunque a quei gruppi dirigenti, esercitando spesso uno degli sport più diffusi: il principio di delega. Cari compagni, credo che se vogliamo ripartire dobbiamo necessariamente prescindere da quei gruppi dirigenti. Quante volte abbiamo scorso i documenti e gli appelli cercando il nostro nord sulla bussola che sembrava impazzita e abbiamo creduto di trovarlo quando leggevamo, in incipit, che anche questo o quel dirigente l’aveva sottoscritto, quel documento. O quante volte ci siamo sentiti dire che questo o quell’intellettuale aveva apposto la sua vidimazione? Vedete, una delle condizioni necessarie ma non sufficienti perché piova è che, oltre al vapor acqueo, in cielo siano presenti anche nuclei di condensazione: essenzialmente polvere, particelle piccole ma molto più grandi delle molecole di vapor acqueo e che, per effetto della loro maggiore dimensione, favoriscono la formazione di goccioline d’acqua. Ebbene, abbiamo passato un quarto di secolo cercando quei nuclei di condensazione, credendo ogni volta che fossero proprio quei quadri politici dirigenti in realtà ormai usurati. Il risultato è stata una pioggia acida che ha portato ancora più siccità.
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Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su La città futura
Nell’immagine di copertina Peter Boyle in una scena del film Frankenstein Junior