Negli ultimi tempi, e ancor più nelle ultime settimane, mi sono sorpresa a sentire un brivido, come di pericolo imminente, ascoltando o leggendo notizie e approfondimenti di quello che sta accadendo sul nostro pianeta, nell’Europa tutta e nel nostro Paese. Ed è qualcosa di diverso dal clima di terrore nel quale ci hanno fatto piombare all’indomani dei grandi attentati terroristici, dal 2001 in poi. Sì, perché credo di aver sviluppato, come altri di noi, una sorta di anestesia permanente autoindotta verso quel tipo di terrore, che lo fa apparire sempre più distante.
La sensazione delle ultime settimane è qualcosa di diverso, avverto un pericolo molto più concreto, che è quello dell’imbarbarimento delle persone. E quello che più mi preoccupa è che questo imbarbarimento riguardi anche persone dotate di strumenti culturali che le renderebbero in grado di un’analisi critica della realtà. Credo che questo sia il segno dei tempi, di un deterioramento delle idee prodotto da un lungo processo di iperstimolazione emotiva, data dal crescente senso di insicurezza che è diventato sempre più palese dal 2008, l’anno in cui è scoppiata la crisi economica.
Io sono nata all’inizio degli anni Ottanta e appartengo a quella generazione che ha conosciuto il benessere in un periodo particolare della vita, l’infanzia e la fanciullezza, nel quale molta parte della propria esistenza ruota intorno al senso di sicurezza dato dai grandi, dai quali dipende la nostra crescita. Il guardare alla propria infanzia e fanciullezza come all’età dell’oro è un fenomeno comune, tra chi ha avuto la “fortuna” – o meglio l’opportunità – di vivere in un clima familiare e sociale sufficientemente buono e sereno (condizione che però non riguarda tutti, tanti sono coloro che nel mondo e nel corso della storia sono cresciuti in contesti familiari e sociali nei quali non è stato possibile avere questo tipo di sicurezza). Ed è esperienza comune che la maturazione di una persona passi attraverso il confronto con le incertezze ineliminabili della vita, che si configura come “perdita dell’innocenza” e che, nel migliore dei casi, approda alla rinuncia al Paradiso Perduto e all’accettazione del mondo reale (accettazione qui intesa come “prendere atto della realtà, in vista di un suo possibile cambiamento” e non come accettazione passiva).
Credo che per la mia generazione la perdita dell’innocenza abbia una duplice dimensione: una dimensione personale, comune a tutte le persone e caratteristica dei fisiologici processi di maturazione psicologica; e una dimensione storica, cioè determinata dal particolare contesto in cui viviamo. Per la nostra generazione, probabilmente, la perdita dell’innocenza ha riguardato contemporaneamente la rinuncia alle fantasie infantili di sicurezza, ma anche una perdita di sicurezza oggettiva, determinata dal cambiamento delle condizioni materiali: il progressivo (e non ancora arrestato) smantellamento dello stato sociale, la perdita di potere economico di sempre maggiori fasce delle popolazione, la precarizzazione dell’esistenza apportata da un imbarbarimento delle condizioni lavorative, l’indebolimento dei diritti civili e sociali conquistati nella lotta dai nostri genitori e nonni.
Ho preso come esempio la mia generazione, quella cresciuta negli “anni di plastica”, perché con lei condivido questa condizione di doppia perdita dell’innocenza, ma anche perché credo che sia la maggiore depositaria dello spirito di questo tempo. Ma se può essere vero che la precarizzazione dell’esistenza incide con maggior peso in una generazione che si trova di fronte alla sfida di elaborare una doppia perdita dell’innocenza, quindi anche nella dimensione personale oltre che storica, anche le altre generazioni si trovano comunque a fare i conti con la perdita di benessere e sicurezza sociale di cui sopra, che è stata inasprita e legittimata dalla crisi economica. Inasprita e legittimata, perché in “virtù” della crisi economica sono state fatte passare come medicine necessarie le politiche di austerity, di taglio della spesa pubblica e di indebolimento dei diritti civili e sociali (si vedano il Jobs Act e il recente attacco alla Costituzione Repubblicana).
Questa non è un’analisi nell’ottica “noi contro loro”: “noi” giovani (anche se andiamo ormai per i quaranta) e “loro” i nostri genitori e nonni, che non hanno il doppio fardello della perdita, perché hanno visto deteriorare ormai da grandi il mondo che avevano costruito. No, non ha senso (ed è pericoloso) contrapporre giovani e vecchie generazioni, come alcuni da tempo ormai fanno, secondo la logica del “guarda che mondo ci hanno lasciato”. Ognuno ha il suo ruolo e il suo vissuto particolari, che sono dati dal momento storico in cui sono nati e cresciuti, ma qualcosa ci accomuna comunque: vecchi e giovani, ventenni, trentenni e “oltre gli -anta”, siamo tutti immersi in uno stato di subalternità a classi dominanti dalla perturbante identità, che ci tolgono potere (civile, sociale ed economico) per portare avanti indisturbati i loro interessi e ci confondono le idee con una fitta propaganda che profetizza la loro ideologia dominante.
Quindi, nati negli anni Ottanta o meno, siamo tutti nello stesso brodo (quasi tutti, eccezion fatta per coloro che nel brodo della crisi ci hanno sguazzato eccome, arricchendosi).
Purtroppo la sensazione di condizione unitaria (quella che un tempo si chiamava coscienza di classe, sic!) non viene esperita e questo vuoto di consapevolezza lascia spazio all’odio sociale verso chi ha una pensione – “perché io domani non l’avrò”, verso chi è in cassa integrazione oppure riscuote l’assegno di disoccupazione – “perché io sono un lavoratore autonomo e non mi tutela nessuno”, verso i sindacati – “perché difendono loro e non me”, verso gli immigrati – “perché a loro danno una casa e 30 euro al giorno”. Eccolo, il brivido di cui parlavo all’inizio sta facendo su e giù lungo la schiena.
Ascolto molto la radio e il telefono aperto di trasmissioni come Filo diretto di Radio Tre o Radio anch’io di Radio Uno. Non ho una statistica in merito, quindi prendete la mia affermazione con estrema cautela, ma ho la sensazione che le telefonate di persone che esprimono odio sociale verso i loro simili siano aumentate, in trasmissioni che comunque, soprattutto quella di Radio Tre, hanno sempre visto la partecipazione di persone avvezze all’analisi critica del mondo. Delle tre l’una: o è cambiata la composizione degli ascoltatori della trasmissione, o chi faceva analisi critica ha smesso di intervenire, oppure le persone hanno smesso di pensare.
Il mio timore è che sia quest’ultima l’opzione più probabile, poiché suffragata dai venti da destra che spirano sul mondo e dalla delegittimazione sempre più sprezzante, diventata un mantra, dei partiti politici e dei corpi intermedi.
Che c’entrano i venti da destra con la scarsa propensione a pensare? Credo che sia patrimonio comune ormai (a parte di coloro che ne fanno parte) che i movimenti di estrema destra soffino sul malessere della gente per coalizzarla e spingerla verso prese di posizione che vanno a detrimento di particolari classi sociali (leggasi: capri espiatori). Questi movimenti sfruttano le emozioni delle persone, piuttosto che dargli gli strumenti per leggere la realtà e intervenire in favore dell’autodeterminazione propria e quella dei propri simili (cioè gli esseri umani).
È questo il deterioramento delle idee cui accennavo all’inizio. Le persone pensano con sempre più maggiore difficoltà; l’austerity sembra aver imposto un taglio anche nella produzione delle idee, per cui bisogna risparmiare anche lì: invece di favorire l’analisi critica, la prassi del confronto e della sintesi, si preferiscono soluzioni economiche come le scorciatoie di pensiero offerte da sedicenti e seducenti opinion leader. Ciò viene facile, perché da una parte si erode lentamente l’istruzione pubblica e dall’altra si sfrutta una caratteristica cognitiva delle persone: la preferenza per l’uso di euristiche al posto del pensiero analitico, soprattutto in condizioni di mancanza di tempo o di stress.
La situazione che stiamo attraversando, permeata da un crescente senso di insicurezza, non facilita l’elaborazione analitica della realtà: siamo dominati da tempo da emozioni che ci annichiliscono, derivanti dal senso acuto di un’esistenza precaria, sia per il diminuire delle sicurezze sociali, sia per gli spettri di guerre e atrocità che sembrano lontane, ma che in realtà rendono vividi i nostri peggiori incubi. In questa condizione di incertezza e percezione di pericolo, le persone possono non avere le risorse per attivare il proprio pensiero critico e quindi preferiscono affidarsi a coloro che gli offrono soluzioni che sembrano sensate, ma che in realtà sono solo strumentali. Un esempio fra tutti: per rispondere alla mancanza di lavoro, alcuni (le destre in primis) propongono come soluzione lo scontro tra lavoratori italiani e stranieri, questi ultimi visti come il male perché rubano il lavoro (qui da noi oppure nei loro paesi, dove le aziende delocalizzano), perdendo di vista quelle che sono le reali condizioni strutturali che rendono il mercato del lavoro una giungla. Fomentare l’odio e la competizione all’interno di una stessa classe sociale, i lavoratori, diminuisce la probabilità che questi si coalizzino contro chi, in realtà, rende le proprie condizioni di lavoro difficili, cioè i “padroni” (voglio continuare a chiamarli così, perché di fatto sono i padroni del mondo).
Inoltre, i cambiamenti avvenuti all’interno del nostro modo di vivere tendono a isolarci e a farci esperire la comunità come luogo di consumo, invece che di condivisione di idee e sentimenti tra esseri umani. Si va al cinema o a un concerto, si consuma il “prodotto” culturale senza discutere con il vicino di poltrona di ciò che abbiamo appena visto; dopo aver lavorato come ciuchi per campare la famiglia, ci si ritrova il fine settimana dentro astronavi colorate, con musica fastidiosa e stupidi jingle che ti invitano a comprare cose che non servono; oppure in palestra tutti allineati sui tapis-roulant come criceti nelle ruote e l’unico sguardo che scambiamo è con il culo della vicina.
La nostra società è organizzata in modo tale da rendere superficiali gli scambi tra le persone. Sono pochi ad avere l’opportunità di frequentare luoghi dove è possibile fare politica, cioè di esercitare la propria cittadinanza, perché questa pratica sta cadendo sempre più in disuso ed è, nei fatti, destinata alle élites. Oggi, dire a qualcuno “Sei un politico” può risultare quasi un’offesa, visto il discredito che le classi dirigenti si sono conquistate a torto o ragione. Abbiamo perso l’abitudine di fare politica, perché ci stanno facendo credere che la politica è ontologicamente malevola, senza riflettere sul fatto che quello è solo uno dei possibili modi di fare politica. Perdiamo di vista culture politiche virtuose, che hanno fatto parte anche del nostro recente passato (e sto pensando in particolare al più grande Partito Comunista dell’occidente), dove viene incoraggiata la partecipazione per il più alto numero possibile di persone, dove si danno strumenti affinché la partecipazione sia reale e non delegata ad altri e dove si stimola una consapevolezza più ampia possibile della propria condizione.
Il mondo non sembra passare un bel momento e, come in una soluzione troppo satura l’insoluto precipita, le scelte sconsiderate di anni di sfruttamento delle risorse, il depredare interi popoli della loro possibilità di autodeterminazione, l’annullare le conquiste civili e sociali del secolo breve e il continuo ricorso allo sfruttamento delle classi sociali più deboli, stanno condensando in eventi che non fanno presagire niente di buono. Oggi più che mai è necessario che le persone siano messe in grado di vedere la loro condizione in una prospettiva sociale e storica e di essere guidate verso la possibilità di incidere per invertire la rotta di questo declino umano. E per farlo non possiamo affidarci a movimenti politici che si camuffano da liberatori dei popoli, ma che in realtà li rendono schiavi manipolando le loro paure e i loro bisogni.
È necessario anche recuperare il senso di umanità che si sta perdendo nell’abitudine a essere sempre più egoisti e diffidenti verso l’altro, abitudine che caratterizza una società fondamentalmente individualista e votata alla competizione più che alla cooperazione. Il senso di insicurezza e precarietà esistenziale ci allontana gli uni dagli altri, ci fa sentire nemici, quando invece siamo nella stessa posizione subalterna costruita ad arte dal modo di produzione capitalistico. Pensiamo che la nostra “salvezza” dipenda esclusivamente dalle nostre capacità, da quello che riusciamo a costruire individualmente anche con fatica. Ma non è così. Perché qui non si tratta della nostra salvezza, ma della sopravvivenza dell’umanità e della possibilità che questa umanità, oltre a sopravvivere, sia messa nelle condizioni di vivere con dignità.
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L’immagine di copertina è Il sonno della ragione genera mostri di Francisco Goya.