Non sappiamo come le alte cariche dello Stato e i neo-eletti deputati e senatori celebreranno la Festa della Liberazione, ma un fatto è certo: il 25 Aprile è festa nazionale e come tale va onorata, come la Pasqua o il Natale. Così nessuno di loro vorrà turbare, per ora, la sacralità della festa, mentre il popolo (questo sconosciuto, verrebbe da dire leggendo in quà e in là) fra ponti, piadine e qualche reunion più apprezzabile trascorrerà la giornata. La verità è che una grande percentuale del paese (percentuale ancora minore se riferita alla classe politica che ci rappresenta) di quelle giornate in cui fu annunciata l’insurrezione armata ha dimenticato molto, se non tutto. L’avversario di classe ha progressivamente iniettato un virus letale che ha cancellato dalla memoria il significato profondo di quel momento, senza parlare dell’opera minuziosa compiuta fin da subito mirante a disperdere le tracce del lungo cammino, compiuto in gran parte carsicamente, che preparò quelle giornate. Un cammino in cui i comunisti ebbero un ruolo determinante nella costruzione delle premesse per il rovesciamento delle sorti del paese le cui tracce si ritrovano, appunto, già negli anni ‘20 del secolo appena passato. La classe poltica, che oggi gioca un ruolo assolutamente marginale nel quadro europeo, giocando a scacchi, non avendo nè il carattere nè le competenze per farlo, destreggiandosi fra filo-atlantismo, europeismo o nazionalismo (dettato ovviamente solo da interessi di classe – l’altra classe), imbraccerà il tricolore all’ombra dei monumenti non sapendo distinguere neppure cosa sia quel cippo o quella lapide a cui sono condotti. Ebbene quei cippi sono nostri, cari compagni: di chi oggi sente ancora le ferite aperte da una storia riscritta dagli odierni vincitori. Le generazioni attuali sono le ultime ad avere ancora nelle proprie famiglie gli echi di quei fatti; echi che solo la presenza in questo paese di un movimento operaio organizzato e, piaccia o meno, di un grande partito comunista poterono non essere sommersi dalla divisione del mondo che ci confinò militarmente ed economicamente sotto l’influenza nordamericana dopo Yalta. Quegli echi ad ascoltare bene sono le voci dei partigiani e delle partigiane: sono le voci della clandestinità, lunga e dolorosa; sono le voci di Togliatti, Gramsci e di tutti i comunisti che pazientemente seppero leggere la loro fase storica con gli strumenti del materismo storico-dialettico e del socialismo scientifico e che per questo seppero al momento giusto anche trovare credibilità politica nella classe dei lavoratori e nel “popolo italiano“ che, non dimentichiamolo mai, aveva fornito consenso al regime e che, dopo un ventennio ed una guerra, non era facilmente conquistabile ad altri cammini politici e sociali.
In questo tempo, dove la frammentazione a sinistra è palese, come il cielo è azzurro, ci giochiamo appunto quell’ultimo centimetro, che dà al 25 aprile ancora un senso compiuto, quello della costruzione di una identità di classe, prima che una identità nazionale: una identità al lavoro come strumento di liberazione e non un mezzo per arrivare al meglio che si può alla fine del mese. Quel centimetro ce lo giocheremo del tutto se non ci faremo carico del fardello della critica alla post-modernità, ovvero a quella costruzione ideologica figlia anche delle nostre sconfitte ma soprattutto figlia della vittoria del neo liberismo, che ha immesso il virus post-ideologico e che ha cancellato dalle coscienze un’intera storia, la nostra storia. Non si tratta di avere uno scatto di orgoglio; quello, se va bene, dura il tempo di una campagna elettorale (40 giorni!). Si tratta di avere la pazienza di assumere su di noi l’intera storia del movimento comunista senza avere la fretta di accaparrarsi spezzoni di dibattiti fra gruppi dirigenti o intellettuali (quelli veri, ci verrebbe da dire, quelli gramscianamente organici alla classe) avvenuti decenni fa; non si tratta di fare la corsa ad accaparrarsi Togliatti, Secchia o Berlinguer o di tirare per la giacchetta Gramsci. Si tratta di imbracciare le armi dialettiche che i marxisti hanno saputo usare per orientarsi nella tempesta agita dal capitalismo (per citare l’immagine della prima tessera del Partito Comunista d’Italia). L’elettoralismo deve essere il primo elemento da espellere così come il narcisismo (ci scuserete se usiamo un termine più propriamente adatto ad una indagine psicologica o al limite sociologica di questo post-moderno) che caratterizza molta parte del dibattito a sinistra e fra i comunisti stessi. Prima ci rendiamo conto che si tratta di un ultimo centimetro, quello che ci resta da spendere, e meglio è. Abbiamo necessità di un dibattito che si affranchi definitivamente dalle missive sfogatorie dei mass-media attuali e che torni a ragionare su una fase caratterizzata dalla demolizione completa dell’idea stessa di organizzazione del mondo del lavoro. Il nemico di classe è tornato ad agire prepotentemente in questi ultimi trent’anni con la macchina dello sfruttamento vorace, della repressione, del razzismo indotto e della corruzione (la guerra fra/ai poveri). Non si preoccupa più neppure di celare le proprie menzogne (pensate alla vicenda siriana). Ciascuno, e mi riferisco a chi ancora si occupa di politica (e siamo sempre meno, se qualcuno ancora non se n’è accorto), sembra contento di avere, di volta in volta, la sua parte di ragione; sembra che ciascuno (singolarmente o in gruppo) attenda di poter dire dal proprio piccolo palco: “ehi, avete visto che avevo ragione?”. Citando un bellissimo film di fantascienza verrebbe da chiedere: “ma vogliamo essere davvero i fantasmi dei nostri figli?”. Traducendo significa scegliere se limitarci ad essere mere testimonianze, ancor quando positive nell’oggi, o vivere il nostro presente traendo insegnamento profondo da tutti i nostri fantasmi del passato per diventare a nostra volta fantasmi per l’umanità futura. E dunque non possiamo prescindere da “ragionare” sulla complessità della nostra storia e con essa sulla complessità del presente per poter provare a gettare le basi per invertire quella che appare una inesorabile discesa agli inferi: siamo nati o no “ per rivoluzionare l’inferno” (prendendo a prestito un‘espressione usata dallo scrittore Manuel Vàzquez Montalban in un suo giallo)? Che questo 25 aprile possa farci riacquistare la consapevolezza dello sfascio post moderno. Che ciascun comunista possa versare nuove lacrime sui cippi pensando all’infamia delle guerre imperialiste, inclusa quella che si sta svolgendo nella società imperalista italiana, e che quelle lacrime si trasformino in dardi infuocati ogni volta che un operaio muore sul lavoro o che una donna è uccisa in seno alla sua famiglia o fuori o un immigrato muore stritolato dalla macchina imperialista o quando semplicemente a morire è il mondo inquinato da grassi e fatiscenti capitalisti. Che questi dardi infuocati possano impedire a ciascun comunista di prodursi in assurdi dibattiti che subordinano alcuni di questi decessi/omicidi in distinguo o, peggio. Tutti questi omocidi, coperti da una quotidianità imposta, hanno un solo colpevole che si chiama neoliberismo la cui mano strutturalmente e sovrastrutturalmente oggi costruisce il fascismo del XXI secolo. Un fascismo, inutile dire, diverso da quello che storicamente abbiamo conosciuto, ma che giornalmente costruisce il proprio nuovo consenso di massa. In una parola dobbiamo ricostruire passo dopo passo una nuova soggettività comunista avendo il coraggio, laddove è necessario, di sparare anche sul quartier generale costituito oggi da gruppi dirigenti bolliti capaci di sopravvivere solo in simbiosi con antiche schermaglie. Noi ci auguriamo e vi auguriamo questo, pronti a lavorare a fianco di chi ha l’urgenza non banalmente di non disperdere le forze o, peggio, di tornare in parlamento, ma di ricostruire una visione autonoma e rivoluzionaria del presente.